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Quando il sabato Santo le campane annunziavano il mistero della Resurrezione, in molti paesi delle province di Napoli e Salerno si usava dare la libertà nella chiesa madre a poveri uccellini tenuti chiusi chissà dove e come, affinché con il loro canto osannassero al Signore risorto!
Addirittura una «antica e crudele usanza», era quella di lanciare verso il soffitto delle volte, centinaia di uccelli, in modo che la lesione del loro nervo ottico determinasse un lamento che veniva scambiato per canto, secondo un antico metodo, usato dai cacciatori per servirsi di merli e fringuelli come richiami, un metodo peraltro vietato dalla legge.
La realtà era ben altra, le bestiole avvolte dal fumo dell’incenso, stordite dai suoni e dai canti dell’Assemblea, vivevano momenti di autentico terrore e se qualche uccellino si salvava dai ragazzi pronti ad acchiapparlo, altri erano trovati morti sui cornicioni all’interno della chiesa e solo pochi fortunati uccellini riuscivano a volare via.
In tempi remoti la Resurrezione si celebrava di mattina ed allora qualche anima pietosa riusciva a far aprire un finestrone, ma negli anni ’60 del secolo scorso la Gloria suonava a mezzanotte, si narra che a Capri tra i canti, le luci, il fumo dell’incenso, quando gli uccellini furono liberati, si levò all’interno della chiesa uno sgradevole urlo composto dalle tante piccole voci impaurite; gli uccellini volarono come impazziti, aggrappandosi alle mura sbattendo le povere ali.
Ada Brindisi, moglie dell’ex sindaco Giuseppe Brindisi che durante la guerra nel settembre del ’43, salvò Benedetto Croce dalla cattura dei tedeschi conducendolo in motoscafo, dalla sua villa di Vico Equense nell’isola di Capri, quel giorno si trovava in chiesa, dove erano presenti anche molti ospiti stranieri che si indignarono profondamente per questa pratica così barbara e non resistendo abbandonarono, insieme alla signora Ada, la cerimonia.
Esortazione del vescovo di Sorrento ai parroci della Diocesi
Era da tempo che zoofili, tante Associazioni e visitatori stranieri, avevano intrapreso una lotta contro quell’incivile usanza, un notevole contributo si ebbe quando nel marzo del 1959, l’arcivescovo di Sorrento Monsignor Carlo Serena [1], esortò i parroci della sua diocesi, da cui dipendeva anche Capri, in occasione dell’imminente Pasqua a non perpetuare, durante la notte del Sabato Santo, quella «antica e crudele usanza», lanciare verso il soffitto delle chiese centinaia e a volte migliaia di uccelli, in modo che la lesione del nervo ottico producesse un periodico lamento scambiato per canto, l’iniziativa del prelato ebbe notevole risalto sulla stampa nazionale ed estera.
L’atroce pratica, come detto, era usata dai cacciatori anche per servirsi di merli e fringuelli come richiami, vietata dalla legge, come provava — fra le altre — la condanna inflitta dal pretore di Pistoia ad alcuni contadini di Lamporecchio; ad ogni buon conto, malgrado le leggi in vigore, l’usanza era ancora praticata in alcune parti d’Italia ed in una ventina di comuni dei golfi di Napoli e di Sorrento, fra cui Capri in particolare modo, come visto, nonostante le indignate proteste non solo degli zoofili, ma anche dei visitatori stranieri.
In una lettera, ad un quotidiano locale la signora Ada Brindisi fra l’altro sosteneva: «Quando il sabato Santo le campane annunciano il grande mistero della Resurrezione, in molti paesi delle province di Napoli e Salento si usa dare la libertà nella chiesa madre a poveri uccellini tenuti chiusi chissà dove e come, affinché anch’essi con il loro canto osannino al Signore risorto! Questa sarebbe l’intenzione, ma la realtà è ben altra. Rinuncio a descrivere lo spavento delle bestiole avvolte dal fumo dell’incenso, stordite dai suoni e dai canti. Negli anni passati la Resurrezione si celebrava di mattina, ed allora qualche anima pietosa riusciva a far aprire un finestrone. Ma se qualche uccellino si salvava dai ragazzi pronti ad acchiapparlo, altri erano trovati morti sui cornicioni all’interno della chiesa e pochi fortunati riuscivano a volare nel sole! Ora la situazione è peggiorata, perché la Gloria suona a mezzanotte. L’anno scorso io ero a Capri: tra i canti, le luci, fumo dell’incenso, gli uccellini ebbero la libertà. Non esagero: si levò al cielo un urlo di tante placide voci impaurite; gli uccellini volavano come impazziti, si aggrappavano alle mura sbattendo le povere alucce! Io non resistetti altro ed uscii. Con vera mortificazione fui seguita da molti stranieri, profondamente indignati, che mi domandavano come poter salvare quelle care bestiole! Una mia amica da Positano mi descrisse una scena quasi simile avvenuta nella parrocchia di quel paese».
L’aperta riprovazione del Vescovo, rappresentò quindi un notevole contributo all’opera degli zoofili ed al buon nome dell’Italia per quanti, venuti a visitare il nostro paese, rimanevano feriti da simile barbarie, sebbene sarebbe stato comunque ingenuo supporre che l’incivile usanza cessasse solo in seguito alla raccomandazione pastorale del vescovo sorrentino.
Nel Settecento Capri era ancora sconosciuta al grande turismo e le escursioni erano fatte da qualche gentiluomo di riguardo appassionato di lettere o di arte, spesso lasciava una descrizione del viaggio che veniva data alle stampe. L’isola appariva ai suoi visitatori, in tutta la sua acerba e schietta freschezza come se da poco fosse uscita dal grembo del continente «Tirrenide».
Non c’erano alberghi e gli ospiti di riguardo alloggiavano nella casa del Governatore con vista sul golfo di Napoli, lo spettacolo che si godeva, non aveva eguali: di fronte all’isola, il grande anfiteatro di Napoli coi suoi sobborghi, da Miseno alla punta di Massa e poi il Vesuvio sulla «Campania Felix» e ai suoi piedi il grande sepolcreto di Pompei, le due Torri, i due Boschi, Portici e Resina, e i Camaldoli sopra Napoli, e poi Nisida, Baia, Pozzuoli e la Solfatara, e più verso occidente Procida e Ischia col fatale Epomeo e più lontane Ponza, Ventotene e il carcere di Santo Stefano.
Dall’altra parte il golfo di Salerno con la costa brulla e alpestre fino a punta di Licosa, le cento borgate sparse per i monti con le bianche strade, le balze di Amalfi e di Salerno e gli scogli dei Galli.
Capri a cavallo dei due golfi, dalle cime dei suoi picchi e dalla vetta del monte Solaro, alto 640 metri, nelle limpide mattine, l’occhio si distende da una parte fino a Gaeta e dall’altra all’Appennino Calabrese.
Pochi eruditi o romantici sfidavano i disagi del viaggio e del soggiorno a Capri, ma quasi nessuno di essi s’avventurava su ad Anacapri: i seicento gradini della scala di roccia, la fessura del «Passatiello», la parete del Solaro, isolavano quella zona dal resto del mondo, un insieme di ulivi, querce e carrubi, un gran terrazzo librato sul mare, chiuso da inaccessibili muraglie di rocce.
Un personaggio come Andrew Boorde che scrisse la Introduction of Knowledge sostenevano che si dovesse viaggiare solo a scopo educativo, James Howell nelle Instructions for foreign travel, compilò sin dal 1642 la guida del classico «Grand Tour», che un vero inglese doveva compiere almeno una volta nella vita, perché la sua cultura fosse completa.
Tra i rarissimi stranieri che in quel tempo s’avventuravano a Capri vi fu, nel 1632, anche il parigino Jean Jacques Bouchard; si deve a Lucien Marcheix, consigliato da Eugene Muentz, se il manoscritto del Bouchard fu portato alla luce in una monografia dal titolo: Un parisien à Rome et a Naples en 1632 (Paris, Edition Ernest Leroux).
Un altro documento prezioso per conoscere la vita di quel tempo era Neapel und die Neapolitaner oder Brieje aus Neapel in die Heimat (Oldeuburg, 1840) che Lidia Croce per la prima volta presentò agli studiosi italiani, nella sua opera: Vita popolare a Napoli nell’età Romantica (Editore Laterza); nella biblioteca caprese si trova riprodotto fotograficamente l’intero manoscritto originale.
Prima che si costruisse la strada rotabile, quindi si saliva ad Anacapri per una scala di ottocento scalini scavati nella roccia a perpendicolo. A schiena d’asino fino al principio della scala e poi iniziava l’ascensione. Guai mettere un piede in fallo. La gente di quassù moriva in giovane età di mal di cuore o dilatazione di vene. Per quella scala passarono centinaia di generazioni, i prodotti e ogni altra cosa erano trasportati sulla testa o sulle spalle di esseri umani.
Su quella antica scala che si snodava come una cordata fra la marina e il monte, andavano su e giù le povere donne capresi, portando «robbe per servizio de’ particolari» e quando avveniva che tra la fatica e il caldo, tirassero su la gonna scoprendo un po’ di bianco, si gridava allo scandalo: «Viles malierculae — tuonava il Primicerio — vestes sursum colligebant inverecunde» (Ignobili ragazze che tirano su le vesti senza pudore), cosa che oggi può sembrare un rimprovero fin troppo duro.
I cavalli e i somarelli, che servivano alle ascensioni, erano condotti da giovani robuste e di una certa graziosità non volgare; le donne lavoravano quanto gli uomini, i quali o emigravano, o erano marinai o pescatori di corallo, molti di loro avevano messo su una nuova famiglia in Corsica.
Capri non era ancora avvolta nel poetico velo dei miti, la Grotta Azzurra sconosciuta, non era ancora apparsa agli occhi incantati del poeta nordico, attraverso il pertugio dell’entrata, come la segreta alcova d’una divinità marina e del suo azzurro-chiomato corteo di Nereidi e i nomi dei luoghi conservavano il sapore casalingo del buon pane di casa.
Alla «Piccola Marina», la Sirena non aveva ancora preso la forma d’uno scoglio accovacciato placidamente sull’acqua e si chiamava prosaicamente la «Marina di Mulo» e al posto della piscina che accoglie bagnanti diurni e notturni, scorreva umilmente l’acqua del «Pisciariello», la sola acqua sorgiva che l’isola riusciva a spremere dalle vene rocciose.
Ad Anacapri la cappella del San Michele viveva ancora incontaminata accanto al cubicolo d’una villa imperiale, incontaminata dalle nordiche malinconie di cipressi; sul balzo della rupe, Cesare Augusto non si affacciava retoricamente in corazza e lancia a far da insegna a un albergo; innanzi all’albergo del Paradiso con il suo ombroso recesso tropicale, c’era il pubblico «seggio delle Ficacciate» ove sedevano, senza contrasti ideologici, Sindaco, Eletti e Catapani addetti alle grascie [2], per emanare editti sulla pulizia delle strade, la decima dell’olio, la festa del Santo e per far annunciare di tanto in tanto dalla tromba del banditore che una capra o una vacca era precipitata dai dirupi della Migliara o di Orrigo sicché, con l’aiuto di Dio, c’era carne da scialare anche per i più poveri d’Anacapri.
L’isola di Capri non era ancora invasa dall’erudita facondia dei «Ciceroni» e nessuna «Guida» era assurta agli onori di particolari presso i postiglioni e le diligenze di viaggio: non c’era né «Raffaele da Pozzuolo» impareggiabile illustratore del fango della Solfatara e del fuligginoso «speco della Sibilla» del lago d’Averno; né «Bartolomeo» detto per antonomasia «del Vesuvio», guida capace di guidarvi tra le fumate e le vampe del cratere, come Virgilio tra i gironi dell’inferno.
Da un resoconto dell’epoca: «Ogni seno, ogni picco, ogni rovina, ogni cantuccio dell’isola, ogni ora ha la sua poesia. I tramonti di Capri sono eccezionalmente splendidi e le albe pittoresche. Da tutta Europa vengono pittori, attratti dalla bellezza del posto e dalla vita facile, in mezzo a una popolazione semplice e tranquilla. I capresi non hanno origine greca, la lunga dominazione romana vi ha lasciato nell’indole qualche cosa di disciplinato e di serio. Il corpulento e taciturno cocchiere, che ci porta nella sua carrozza a due cavalli, ha tipi, schiettamente romaneschi. Quel cocchiere era miserabile, ma da quando c’è la strada è divenuto ricco e dà moneta a mutuo. Ricco cosi per dire, perché chi possiede quassù trenta mila lire è ben provvisto.
La poca proprietà è assai sminuzzata, e la terra si misura a pergole e occorrevano più di 700 pergole a formare un ettaro. L’isola era povera e non aveva industrie, tranne che non si voglia chiamare cosi la caccia delle quaglie, che gli isolani prendevano a migliaia con alte reti in maggio e settembre e vendevano a buon prezzo in quel di Napoli.
Il vino che vi si produceva era discreto, ma affatto diverso da quello che sta in commercio col nome di Capri. La terra era ubertosa, ma scarsa. Tutta la parte alta dell’isola era brulla. Una volta c’erano boschi, distrutti dal triste vandalismo che ha reso calvo quasi tatto l’Appennino meridionale e ora vi erano rade macchie o la roccia nuda».
Per vari secoli al vescovo di Capri —consuetudine divenuta diritto — spettava un tanto di quaglie su quelle catturate e vendute. E per quanto incredibile possa apparire, questa entrata era fra le principali della «mensa vescovile». Né valsero le proteste che dall’isola arrivavano al supremo Soglio. Potevano mai reggersi vescovo e vescovado su sì labile base? Si domandava un presule. Né la risposta tardò: può un pastore d’anime dubitare della Provvidenza che mai, come in questo caso, arriva dal cielo? No, non può. «E’ la gratia di N.ro Signore Giesu Christo che fa capitare a Capri quantità di quaglie».
A quei tempi recarsi a Capri per mare era un pericolo a causa delle frequenti scorrerie delle navi corsare turche, ma per Sir Henry Blunt questo era proprio un buon motivo per andarvi, desiderando egli chiarire se veramente i Turchi fossero peggior gente dei cristiani (il pericolo dei Turchi nel golfo di Napoli cessò alla fine del secolo XVIII).
Il vescovado di Capri, rappresentava una sentinella contro il Turco, il cui arrivo le genti della costa spiavano con le vedette sulle alte torri, nei punti più elevati, affinché si potesse subito dare l’allarme nei paesi e suonar campane, rifugiandosi la gente nei valloni, fuori dell’abitato.
Di quelle torri sono rimasti i ruderi che appaiono a chi navighi nel golfo lungo le rocce a strapiombo; grande era il pericolo che il vescovo di Capri, ghiotto boccone cadesse in mano agli infedeli, malgrado ciò, assai grame erano le sue condizioni di vita, tanto che a detta del vescovo Traiano Bozzuti (1608/1625), il Papa inviasse a Capri quei vescovi che dovevano «purgarsi dei loro peccati».
Una delle maggiori risorse del vescovo di Capri, come accennato, erano le «quaglie di passo», infatti una parte degli uccelli catturati con le reti nell’isola spettava a lui, tanto che quel vescovado era chiamato il «vescovado delle quaglie».
I preti dell’isola amavano poco il loro pastore, una volta bisognò provvedere alla nomina del parroco della «Terra di Anna Crapa» (Anacapri), le cui relazioni con la «Città di Crapa» (Capri) erano state sempre difficili, fino a provocare veri conflitti armati. Il vescovo nominò un «prete di sotto» e i «preti di sopra» nel luogo oggi chiamato il «Seggio dell’Olmo» dove i più autorevoli rappresentanti si riunivano, luogo di congiure «solito a simili segreti parlamenti», organizzarono una rivolta. Narrano le cronache che non essi né il popolo, ma «le bizzoche carcerate per loro, miseramente scontarono la pena».
Il clero stesso dunque era un ostacolo così grande per il vescovo, da diventare un giusto orgoglio, per chi fosse inviato a governare quella diocesi, riuscirvi a sopravvivere, se non proprio a domare gli avversari.
Monsignor Canale interpretò le quattro lettere «C.C.C.P.», che sono nello stemma vescovile affrescato sotto la volta del salone ora nel Municipio: «Capitolum Capritanum contra Pastorem»; in un documento del ‘600, il vescovo Pellegrino diede una sua spiegazione delle quattro lettere che estende l’ostilità al suo pastore a tutta l’isola «Capritani Conjurati Contra Pellegrinum».
La caccia delle quaglie a Capri (La perdita del vescovado)
Il vescovo Monsignor Paolo Pellegrino, volendo riordinare e migliorare, la disciplina Ecclesiastica nella sua Capritana Diocesi lacerata da abusi e corruttele, nella seconda domenica dopo Pasqua di Risurrezione, nell’anno 1642, il giorno 4 maggio, celebrò il primo Sinodo Diocesano, tra i tanti argomenti, si trattò il problema se anche ai religiosi potesse consentirsi l’uso di un’arma da fuoco per gli uccelli.
La caccia della quaglia con le reti a Capri era un’usanza antichissima di almeno 11 secoli, infatti l’isola è uno dei punti più favoriti del mondo, quando in primavera e in autunno gli stormi di uccelli trasmigrano in cerca di ambienti più favorevoli, così come testimoniava il celebre scrittore Edwin Cerio.
A Primavera al transito delle quaglie sopra l’isola di Capri, dagli ulivi di «Materita», del costone di Monticelli e del «Mulino a vento», aveva inizio il nutrito fuoco dei cacciatori tra richiami ai cani, frullo d’ali e qualche sommesso chioccolio sotto il macchione di ginepri.
Nelle tiepide notti mediterranee, in primavera e in autunno, fino al 1818, si attendeva con tanta ansia l’entrata degli uccelli, la attendeva soprattutto il vescovo dell’isola. Quando gli fu tolto il vescovo che essi avevano tanto angustiato per otto secoli, gli isolani mal soffrirono di dover dipendere da Sorrento sotto la cui giurisdizione Capri fu posta.
L’inimicizia fra gli isolani e la costa di fronte remota e risalente al 1818, allorché nell’ambito del Concordato fra Pio VII e Ferdinando I di Barbone, fu emanata la Bolla papale: «De utiliori Dominicae Vineae», nella quale insieme ad altre sedi vescovili del Regno di Napoli, restò abolita anche la sede vescovile di Capri che — dopo otto secoli di vita — cessò di esistere e venne posta alle dipendenze dell’arcivescovo di Sorrento. Il colpo fu duro e sentito dagli isolani come un affronto cocente, patito per la perfidia dei sorrentini.
Come provano numerosi documenti d’archivio e l’opera di Edwin Cerio, Capri nel ‘600, se il vescovado fu abolito la principale responsabilità spettava però agli isolani che posero i vescovi in condizione di morire quasi per fame e gli resero la vita impossibile; certo all’epoca le condizioni di Capri erano misere, la terra era poca e scarsi i frutti, la pesca costituiva la principale risorsa. Il turismo che finalmente arricchisce i capresi non esisteva e i viaggiatori d’allora erano pellegrini, soldati, mercanti, diplomatici, che visitavano tutt’al più i luoghi sacri.
In epoca fascista poi, un decreto, giunto da Palazzo Venezia, vietò la caccia sull’isola, cosicché in primavera e in autunno risuonarono gli spari degli schioppi sorrentini che a un braccio di mare attendevano fra limoni e aranci, la grazia di Dio che Capri non poteva più gustare.
I cacciatori capresi organizzarono battute in barca, ma la preda era scarsa e la spesa forte, più di tutti, furenti erano i preti, rimasti senza vescovo e senza quaglie, tolti entrambi da Sorrento, a Capri covava la rivolta, infatti a che valeva che il canonico don Raffaele Farace d’Anacapri, più che sessantenne, fosse ancora il primo schioppo del Golfo? Scintille succedevano a Sorrento, quando nell’anticamera del vescovo, i preti di Capri e di Sorrento s’incontravano.
Il 25 luglio successivo, il divieto di caccia nell’isola decadde e fu ripresa la vecchia gara, fra Capri e la costa di fronte, a chi lasciasse meno quaglie all’avversario, in maggio gli stormi passavano prima su Capri, mentre in settembre prima sulla costa. Gli isolani cercarono anche di riavere il vescovo, la loro richiesta avanzata in questo senso dai preti dell’isola fu per Pio XII (1876 – 1958) una difficile questione, il Papa tenuto conto dell’insufficiente dotazione affinché un vescovo potesse là vivere con dignità e dei costumi abbastanza liberi che sull’isola si praticavano, riteneva inopportuno il ripristino in Capri della cattedra vescovile.
Peraltro già nel 1883, un resoconto ravvisava preoccupato che nell’isola di Capri vi fosse una deriva protestante a danno della tradizione cattolica, si leggeva: «Si viene a Capri quando è buon tempo con uno dei vaporetti del golfo, e si parte da Santa Lucia o dalla marina di Sorrento. A bordo non s’incontrano che tedeschi, inglesi, americani e artisti. Assai di rado si vedono famiglie e comitive italiane. I forestieri venuti una volta, vi tornano e molti vi rimangono.
La colonia stranieri è assai grossa. Vi hanno costruito templi evangelici e un camposanto, che si distingue dal cattolico, perché rassomiglia ad un giardino e poetizza la morte, mentre il cimitero cattolico ispira ripugnanza e terrore. La propaganda evangelica è efficacissima, o moralmente più sana: fra venti anni l’isola sarà tutta protestante. I preti cattolici son pochi e vivono vita libera e mondana.
Si narrano aneddoti, che non si possono ripetere. Confinati sti questo scoglio, sono sottratti a qualunque vigilanza episcopale. Il vescovo, ch’è quello di Sorrento, si chiama don Leopoldo Ruggiero, già revisore sotto i Borboni. Egli, a somiglianza del vicino vescovo di Castellamare, ordina preti a centinaia. I quali, malamente educati e poverissimi, ricorrono ad ogni mezzo per campare la vita: non piccola cagione della decadenza morale di questi paesi del golfo».
Inoltre, come non si mancò di far notare a Pio XII che il clero di Capri a suo tempo aveva scelto proprio quel Nicola Gamboni che portò in Capri il «fumo dell’eresia», infatti, come ricorda Benedetto Croce in Uomini e cose della vecchia Italia, il vescovo di Capri Gamboni fu con altri prelati, fra cui gli arcivescovi di Taranto, di Matera e di Napoli, in quel gruppo di ecclesiastici «che favorirono e parteciparono alla eresia giansenista» che tanto fece lottare, per estirparla, papi e gesuiti.
Dopo aver accordato il suo consenso ad un simile vescovo, giansenista e ribelle, ora al Papa, il clero di Capri chiedeva il ripristino della sede vescovile? Sua Santità sentiva però che qualche soddisfazione bisognava pur darla a quei bravi isolani, così devoti, nonostante le stranezze dei forestieri, in più il clero di Capri aveva illustri tradizioni per i molti preti divenuti vescovi, come ad esempio il vescovo di Sant’Agata dei Goti, Monsignor Giuseppe De Bernardis e Monsignor Carlo Serena. Così decise per una via di mezzo: l’isola continuava a dipendere dal vescovo di Sorrento ma costui, a sua volta, sarebbe stato un caprese. E il 22 ottobre 1945 vi fu mandato appunto Monsignor Carlo Serena, così benché avessero riavuto le quaglie ma non il vescovo, gli isolani rimasero comunque soddisfatti.
Il Re a caccia nell’isola e la nascita dell’Archeologia caprese
Nel Settecento, secondo l’archeologo Amedeo Maiuri, gli scavi a Capri ebbero ufficialmente inizio con il passo delle quaglie, infatti egli sostenne: «quella felice congiuntura venatoria che a me, famigerato sovvertitore dei più segreti e prediletti recessi dell’imperatore Tiberio, spetta di mettere nel debito rilievo, per non esser tacciato di invidioso oblio verso il primo fondatore dell’archeologia caprese che fu, e non poteva a meno di non essere, a Capri uno straniero, l’austriaco Hadrawa, ministro accreditato presso la Real corte di Napoli, tocco, come il suo grande collega Hamilton, dalla divina febbre delle anticaglie».
Al tempo un viaggio in feluca attraverso le acque agitate del golfo, non era ancora entrato nel programma delle «passeggiate» turistiche quotidiane, quando Hadrawa ebbe la sorte felice e invidiabile di accompagnare nell’isola il Re Ferdinando IV, appassionato cacciatore, un bel mattino d’aprile dell’anno 1786.
Il re mosse dal porto con un brigantino, due galeotte, uno sciabecco oltre a molte barche di pescatori e a quelle di camera, che formavano in tutto una bella squadra, non per un’esercitazione navale o per un convegno diplomatico, ma per la caccia alle quaglie; tutta l’isola viveva allora del transito delle quaglie e il bilancio pubblico e privato anziché reggersi sulla clamorosa e complicata industria del forestiero, si reggeva sull’affluenza di quei poveri uccelli migratori che venivano a morire stancamente su quel primo approdo dal lontano lido africano.
Meta delle reali caccie era la «Piccola Marina» non ancora assurta a simbolo e sintesi dello snob caprese: priva di case, di ville, di piscine, ma ricca di profumati cespugli di mirti e di ginepri, serviva solo d’approdo alle quaglie e fra la rupe del Castiglione e quella del Solaro era il più bel paretaio che si potesse desiderare, e il re e il suo seguito risalendo dalla spiaggia alle «Parate» si cacciavano innanzi con le grida, con le mazze e con i cani il branco delle quaglie.
Il vescovo Gamboni in persona fece da guida al Re Ferdinando IV, parlando il più castigatamente possibile delle nefandezze di Tiberio, anche perché fortunatamente nessuna seria riabilitazione era venuta a turbare la mala fama che quell’imperatore si era guadagnata in undici anni di vita caprese: Tiberio era un «libidinoso vecchiardo» e le «Camerelle» della Via Tragara, trasformate oggi in negozi mondani, erano concordemente additate dagli eruditi come il luogo infamante delle «Sellarie» celebrate da Svetonio.
L’Hadrawa ch’era più buon cacciatore a tavola che sul terreno, rifuggiva da così salutare diporto e andando invece a caccia di anticaglia, capitò in una masseria dove una pianta di fico (il fico è l’albero della buona ventura per i cercatori di tesori) rovesciata dal vento, aveva aperto una buca a traverso la quale s’intravedeva la volta d’una camera coperta di stucchi e altre stanze intasate di terra. Portata la notizia al re e il re l’incoraggiò a trovar cose degne dei suoi Musei, cosicchè Hadrawa divenne antiquario ed archeologo, un antiquario insomma che rischiava almeno la spesa e la fatica dello scavo.
Per tre anni ad ogni transito delle quaglie e ad ogni ritorno del Re, si riaprì la partita di caccia e si riprese la partita dello scavo. E al terzo anno, essendosi trovato un intero pavimento in marmi policromi, il Re si degnò d’onorare d’una sua visita lo scavo e l’Hadrawa non mancò di narrare all’antico viennese la messinscena di quell’eccezionale avvenimento: fece gran toletta allo scavo fornendolo di comode rampe d’accesso, marmorari fatti venire da Napoli per «allustrare» il pavimento e acqua pronta da gettare sui marmi al momento buono, corteo di gentiluomini e di popolo, parole del Re che non sapendo cosa dire ammirava la perfetta geometria del disegno.
Colpo finale! Gli operai festanti innanzi a una gran tavolata di spaghetti da mangiare maestrevolmente con le mani e la «tarantella» guidata da un rubizzo ottantenne «corego» [3], in berretto a fiocco progenitore dell’immortale Spadaro [4].
Quando il Governo borbonico mise la sua brava decima sulle quaglie che i contadini di Anacapri portavano a vendere a Napoli, fu presentato un esposto alla maestà del Re, che recitava: «il maggior sostegno di essi esponenti è la gratia di Nostro Signor Giesù Christo che in certo poco tempo dell’anno fa capitare in detta isola quantità di quaglie, quali vanno poi raccogliendo co’ la razza per luoghi scoscesi con pericolo della vita… e del ritratto di esse banche tenue (ah furbizia caprese!) ne comprano tanti porcelli et vacche (ch’era un bel cambio in natura!) le quali conducono in detta isola e li serve il vivere miseramente».
Ad ogni buon conto la gente di Capri non vedeva di buon occhio quei «reali diporti», poiché tante più quaglie cadevano tra i lacci e i paretai del Re e tanto meno decime affluivano alle striminzite casse delle Opere pie e alla mensa vescovile, al che a onor del vero, rimediava il Re in persona dispensando doti per maritaggi di onorate donzelle, elemosine ai poveri e riparando chiese, strade e ospedali.
Non mancarono le amarezze che cominciarono proprio quando cessò il felice connubio fra il transito delle quaglie e la scoperta di anticaglie: al quarto anno il re non tornò con la flotta a Capri, per il nobile e salutare diporto della caccia; il Vescovo, gli Eletti e i Catapani tirarono un respiro di sollievo; gli anacapresi poterono di nuovo barattare a Napoli, quaglie con vacche e porcelli.
L’Hadrawa che aveva preso gusto a fare il mercante e dispensatore di antichità, ebbe il torto di tornare nell’isola non al seguito del re, ma come un qualsiasi forestiero su «tartane» e «feluche» e di voler fare uno scavo in grande delle maggiori ville imperiali, i locali non erano gonzi e mentre lo Hadrawa scovava e barattava antichità, i proprietari, i coloni e i censuari lo «grattarono» di grane e carlini che si mutarono in ducati e non è detto che gli scavatori non imparassero a «grattare» anch’essi per conto proprio qualche bel pezzo di «anticaglia» facendo legittima concorrenza all’antiquario straniero.
Così anche per Capri incominciò la consueta storia di scoperte e saccheggi, inoltre se si va a frugare tra le carte d’archivio, si vedrà che il signor Hadrawa si faceva pagare in fior di ducati, i pavimenti di marmo che forniva, ricomposti e «allustrati» al Real Museo, ma non solo, riforniva un certo vaso di marmo a rilievo, di un superbo carneo, di un’ara scolpita dette disegni e gessi, agli amici e all’Accademia napoletana delle Belle Arti; molti originali esularono nelle mani di ricchi amatori inglesi e (per ragione d’amor patrio) di qualche principe austriaco; furono comunque questi gli anni fortunati dell’archeologia caprese.
Intanto, mentre i capresi e gli anacapresi mordevano il freno, arrivò sull’isola un altro castigo: gli «zoofili», con in testa lo svedese Axel Munthe (1857 – 1949) con la sua Storia di San Michele, si narra che un inesperto cacciatore impallinò la sua bombetta.
A parte questi spiacevoli episodi, resta assodato che il primo avvaloramento archeologico di Capri, secondo il Maiuri, si deve a una congiuntura venatoria, relativa al transito delle quaglie.
L’ultimo vescovo di Capri fu Nicola Saverio Gamboni (1746 – 1808) che nel 1799, avendo aderito alla repubblica partenopea, dovette fuggire dall’isola e riparò prima a Vigevano, dove esercitò le funzioni di vescovo senza autorizzazione pontificia e poi a Venezia, dove divenne patriarca il 24 agosto 1807, rimase però solo pochi mesi: la morte sopraggiunse il 21 ottobre 1808. Nel suo stemma, ripetuto sul trono vescovile, vi era una gamba e non solo quel trono fu lasciato nella cattedrale di San Costanzo ma, affinché il ricordo dell’affronto rimanesse eterno, fu demolito e rifatto in marmo, come un monumento, all’interno della cattedrale caprese.
Negli Aneddoti di varia letteratura Croce conferma che il vescovo Gamboni, per il suo atteggiamento favorevole ai francesi nella rivoluzione del 1799, una volta ritornati i Borbone, fu condannato alla «esportazione dal Regno vita durante con l’obbligo di non tornare sotto pena di morte», ma al contrario del vescovo di Vico Equense monsignor Michele Natale, evitò l’impiccagione, ma non l’esilio, visti gli ottimi rapporti che aveva tenuto con Ferdinando IV, presso il quale perorò per gli isolani diverse cause tra le quali quella della costruzione di torri di difesa contro le incursioni piratesche.
Come accennato, quando Napoleone si arrogò il diritto di nominare i vescovi, Gamboni accettò, senza averne l’autorizzazione dal Papa, il vescovado di Vigevano e poi il Patriarcato di Venezia e non solo: nella sua prima predica a Vigevano, narrò ai fedeli che egli era stato vescovo di Capri «la cui entrata massimamente si ricava dalle quaglie» e lo disse con malcelato biasimo a chi, tanto in alto, fu sempre insensibile alle difficoltà in cui il lontano pastore si dibatteva.
Ritornando all’antica crudele usanza, nell’ottobre del 1965, di notte, fu condotta una vasta operazione di polizia zoofila, disposta nella fascia dei comuni vesuviani, dal presidente dell’Ente nazionale per la protezione degli animali (ENPA), avvocato Francesco Girardi che diede risultati sensazionali.
L’operazione accertò l’esistenza di un efficiente racket che violando ogni legge, entrava in funzione durante il tradizionale «passo» degli uccelli, profittando della migrazione degli stormi diretti in primavera verso l’Europa e in autunno nei continenti ove trovano cibo e clima temperato; un gruppo di speculatori, per rivendere a prezzi d’oro la cacciagione, aveva organizzato tutto un sistema vietato dalla legge, servendosi non solo di reti e uccelli da richiamo, accecati per farli cantare, ma perfino di nuovi mezzi quali registratori e amplificatori con nastri, dove erano incisi i richiami e il canto di quaglie, passeri, tordi, beccacce, pettirossi e altre specie.
Le forze dell’ordine fra il latrare e l’avventarsi di numerosi cani da pastore che vigilavano intorno ad un casolare, dopo aver invitato i quattro malviventi a richiamare le loro bestie, sequestrarono un centinaio di gabbie dov’erano rinchiusi uccelli e tutto il materiale tra cui un ferro rovente, con il quale era stato leso loro il nervo ottico.
Prese parte alla campagna di repressione, anche la “Man Society for Protection o/ Animals”, l’organizzazione londinese che collaborava con l’ENPA, numerosi erano a Napoli i delegati di varie istituzioni estere con lo scopo di difendere gli animali, le operazioni condotte fecero divampare le polemiche non ancora spente, soprattutto in Germania, Olanda, Belgio e Inghilterra, per il tenace persistere di usanze cosi malvage.
Nell’aprile del 1971, come ogni primavera stormi di uccelli provenienti dall’Africa saettarono nel cielo dirigendosi verso l’Europa, ma finalmente non fu data loro la caccia, fra la gioia degli zoofili e con il visibile compiacimento dei turisti esteri che già affollano le varie località panoramiche dei golfi di Napoli e Salerno, la novità fu che i volatili non furono accolti dall’infernale fuoco delle doppiette nascoste tra il fogliame di agrumeti e vigne.
Il divieto delle cacce primaverili, sia pure limitato alle sole regioni del Mezzogiorno, era entrato in vigore e lasciava tranquille rondini, tortore, quaglie, ma rese furibondi i cacciatori che, poco prima della Pasqua, inviarono a Roma, dal Ministro dell’agricoltura e foreste, una folta delegazione in cui erano rappresentate quasi tutte le province dove questa caccia non era più permessa.
Parlando a nome di due milioni di cacciatori tesserati, oltre a quelli di frodo (la sola Campania ne contava centoventimila), essi chiesero che il divieto fosse abolito immediatamente soprattutto per due motivi: la disparità di trattamento col resto dell’Italia e il danno che si arrecava alle fabbriche di fucili e di munizioni.
L’onorevole Lorenzo Natali — come i cacciatori fecero sapere in un loro comunicato — pur senza impegnarsi sull’accoglimento della richiesta, assicurò che l’argomento sarebbe stato trattato d’urgenza nel prossimo consiglio dei ministri. Proprio per controbattere tempestivamente gli argomenti dei cacciatori fu diffuso a migliaia di copie un manifesto trasmesso anche al presidente della Repubblica, della Camera, del Senato, del Consiglio, delle commissioni per l’agricoltura dei due rami del Parlamento e ai titolari dei dicasteri dell’agricoltura e foreste e del turismo e spettacolo. Quest’ultimo ministero particolarmente stretto d’assedio per le pressioni che le varie associazioni di albergatori e di operatori economici esercitavano, sia pure spinte non dagli stessi motivi degli zoofili ma dalla preoccupazione di non veder turbata la pace di località come, per esempio. Ischia, Procida. Capri e la costa di Sorrento, con il rimbombo di spari che esasperando la clientela, la costringevano a fughe senza ritorni.
[1] Monsignor Carlo Serena nacque a Capri, da antica famiglia caprese, nel 1882, dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1905, si laureò in lettere e filosofia. Insegnò all’Istituto Nautico di Piano di Sorrento fino a quando fu chiamato a frequentare la Pontificia Accademia Ecclesiastica. Dopo aver conseguito la laurea in diritto canonico, fu nominato segretario della nunziatura apostolica di Rio de Janeiro. Passò poi dapprima alla nunziatura apostolica di Berna e poi a quella d’Italia. Il 5 luglio 1935 fu nominato nunzio apostolico in Colombia ed elevato a vescovo titolare di Mira. Fu consacrato nella basilica di S. Pietro dall’allora cardinale Segretario di Stato Eugenio Pacelli, il quale, dopo essere diventato papa con il nome di Pio XII, nel 1945 lo nominò arcivescovo della Diocesi di Sorrento, che resse fino alla sua scomparsa, avvenuta a Sorrento il 29 luglio 1972.
[2] Grascie – Termine che anticamente, soprattutto nell’età medievale, indicava le vettovaglie in genere, specialmente i cereali.
[3] Presso gli antichi Greci, il corego era capo del coro, ad Atene, cittadino facoltoso a cui lo Stato affidava l’onere e l’onore di una coregia.
[4] Francesco Spadari, per tutti «Spadaro», s’inventò un personaggio destinato a diventare icona di Capri, dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Trenta del Novecento. Fluente barba bianca e berretto di lana rossa, una pipa lunga e la fascia in vita, ai piedi gli «zabattigli», immancabili, si presentava così ai turisti nella piazzetta di un’isola che allora cominciava a diffondere il suo mito nel mondo. Spadari fu marinaio e pescatore, amico di scrittori e artisti, finì in foto, cartoline e dipinti, quando all’epoca non c’erano i social network.
Sacerdote Carmine Santaniello Dolorose querele e ricorsi del clero anacapritano, ai componenti la S. Congrazione del Concilio in Roma 1642, Napoli novembre 1822
Crescenzo Guarino, Il vescovado delle quaglie, Il Corriere della Sera, Milano 1949
Crescenzo Guarino, Vecchi conti da regolare a Capri, Il Corriere della Sera, Milano 1949
Amedeo Maiuri, Le quaglie chiamarono gli archeologi a Capri, Corriere della Sera, Milano 1951
Crescenzo Guarino, Sistema di caccia illegale stroncato nei dintorni di Napoli, Il Corriere della Sera, Milano 1965
Crescenzo Guarino, Interrotta una assurda carneficina, Il Corriere della Sera, Milano 1971
Crescenzo Guarino, Il vescovo di Sorrento ai parroci, La Stampa, Torino 1959
Claudio Bernardi, La drammaturgia della Settimana Santa, Vita e Pensiero, Milano 1991
Postato il 14 aprile 2022 di lurusblog
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